Aspetto sociale della determinazione qualitativa della condizione di cittadinanza in relazione al genere di appartenenza

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    Dell’aspetto sociale.

    Cenni preliminari per una corretta messa in obiettivo della questione sociale in analisi.

    Cos’è la società? A quali bisogni risponde?

    Le domande sopra esposte trattano un argomento complesso e necessiterebbero di trattazione propria esaustiva. Verranno, qui, soddisfatte in maniera breve e selettiva, affrontandole da un punto di vista necessariamente riduttivo in quanto mero strumento introduttivo.

    In una sintesi estrema possiamo definire la società come una comunità organizzata e funzionale.

    Secondo Freud l’individuo sociale, cioè l’individuo che si civilizza è per forza di cose “rinunciatario”.

    Secondo Freud, infatti:

    “Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”


    Sviluppando l’osservazione freudiana possiamo dire, quindi, che l’uomo sociale rinuncia ad una parte della sua libertà per godere di alcune certezze in termini di sicurezza, approvvigionamento dei beni di prima necessità, soddisfacimento di bisogni primari.

    L’organizzazione sociale presuppone, pertanto, la definizione di ruoli; nella società moderna questi ruoli generalmente vertono sulla dualità (es: datore di lavoro/impiegato, maestro/alunno, medico/paziente ecc), per poter funzionare il meccanismo sociale deve avere bassa conflittualità tra i ruoli, ed i “valori” che una società determina non sono altro che coefficienti sociali atti a ridurre la conflittualità; la stessa dualità si ritrova chiaramente all’interno del nucleo familiare, dove la definizione dei ruoli regola i rapporti della coppia originaria la cellula costituente il tessuto sociale, secondo valori comunemente accettati. Nel modello sociale occidentale i generi maschile e femminile hanno sempre avuto ruoli classicamente predeterminati seppure, al giorno d’oggi, declinati sulle corde di una società moderna e dinamica.

    All’interno di una società, pertanto, ognuno ha fatto a priori delle rinunzie di libertà. La libertà dell’individuo moderno in senso assoluto, quella comunemente intesa, non esiste perché è solo un malinteso feticcio ideologico: esiste “l’idea di libertà” che si traduce in una mediazione basata su compromessi ineluttabili altrimenti, se così non fosse, vivremmo ancora nell’epoca in cui le controversie si dirimevano per mezzo della nuda forza.

    Il “patto sociale” non è altro che la coniugazione di questi compromessi in un equilibrio accettato - con funzione di collante - che, fondato sulle rinunzie comuni di porzioni di libertà, smussa gli attriti ed abbassa il conflitto entro livelli che permettono la pacifica convivenza e, questo, vale per tutti le categorie degli attori sociali. Per questi motivi, ad esempio, un maschio è un cittadino ma potenzialmente è anche un lavoratore, un padre, un nonno, un capofamiglia; allo stesso modo una femmina è una cittadina ma in potenza è anche una lavoratrice, una madre, una nonna. Le rinunzie vengono quindi colmate dalle attese sociali, cioè dalle aspettative comportamentali riservate ai ruoli predeterminati: diversamente non vivremmo più in una società ma dentro un insieme casuale di singole individualità egoisticamente centrate.

    Una società non è mai determinata, statica, non è un monolite immutabile; essa è in continuo cambiamento: la società si adegua alla mutevolezza umana, ai tempi, e tuttavia c’è differenza tra il cambiamento interno al patto sociale, costruttivo e che spinge al progresso sociale, ed il cambiamento distruttivo, fine a sé stesso e che, se lasciato fuori controllo, corrompe irreversibilmente il patto sociale.

    Il cambiamento interno adegua i ruoli all’epoca corrente, il cambiamento di rottura disattende i ruoli e determina il collasso del modello sociale esistente.

    Nella società odierna è senza dubbio il genere femminile a venir meno al suo ruolo, a spezzare la coesione sociale, e questo non perché la donna si sia emancipata e sia diventata lavoratrice, istruita, in grado di poter divorziare, abortire e, in sostanza, determinarsi: queste sono conquiste assodate, e non sono, ora, messe in discussione. La femmina spezza il patto sociale perché non riconosce più il suo ruolo e non assolve più alla sua funzione di attore sociale.

    L’egoismo individualista di un genere ha prevalso sul ruolo sociale, ed è venuta meno la disponibilità ad effettuare quelle rinunzie necessarie ed inevitabili su cui si fonda la convivenza civile.

    I padri fanno i padri (o vorrebbero ancora farlo), ma le madri non fanno (più) le madri.

    Il diritto al lavoro, ad esempio, è senza dubbio un esempio emblematico. Il lavoro è, sostanzialmente, una pena, e per questo si viene retribuiti; sappiamo che il lavoro è essenziale per il sostentamento della famiglia (riferiamoci, ad esempio, alla famiglia/tipo composta da padre, madre e figli minorenni), e che almeno 1 dei componenti adulti della famiglia, deve lavorare per provvedere al mantenimento economico della stessa. Normalmente, e come finora accettato dal modello sociale corrente, pur avendo padre e madre esattamente stessi diritti e doveri, l’aspettativa dei ruoli sociali ha sempre avuto come attesa il fatto che il padre lavorasse e la madre badasse maggiormente alla crescita dei figli: un impegno lavorativo svolto fuori casa, in primis, dal maschio e un impegno lavorativo svolto in casa dalla madre. Questo non significa che una femmina, nel ruolo di madre, non possa e/o non abbia il diritto al lavoro, tutt'altro, basta leggere la nostra Costituzione per prenderne atto; ma questo diritto al lavoro, nel nostro modello (e come sarebbe ovvio e logico attendersi, in ogni caso), è stato sempre esercitato come seconda opportunità in caso di esigenza: una madre va al lavoro fuori di casa se è utile ed inevitabile per il mantenimento del nucleo familiare, e questo fino a che il lavoro è stato caricato del giusto significato (pena, necessità), e maschi e femmine avevano lo stesso intento vitale, quanto meno nelle aspirazioni valoriali, di progettualità e costruzione di un nucleo familiare genuinamente condiviso.

    Questo modello sta venendo meno da quando, su input di infondate istanze femministe ideologizzate dapprima in pensiero dominante (già dagli anni ’50), e sedimentate negli anni in sentire comune femminile, il lavoro non è più inteso nella sua accezione di pena/necessità, ma come mezzo per affrancarsi da un non meglio specificato giogo maschile, come se lavorare fosse qualcosa di fine a se stesso e non mezzo comune da usare quando strettamente necessario per le esigenze famigliari: oggi molte femmine che sono già madri, disattendono il proprio ruolo pur di uscire fuori di casa per lavorare anche se questo non è necessario, sobbarcando il maschio di una mole di lavoro evitabile (quando si lavora in 2 il lavoro in casa deve essere redistribuito, e questo è comprensibile quando il lavoro fuori per entrami è inevitabile, non lo è quando il lavoro fuori resta inevitabile per lui e un capriccio per lei); il lavoro non è più un mezzo ma un fine: non serve ALLA famiglia ma serve per evadere DALLA famiglia, anche a costo di sottrarre tempo ai figli piccoli, di caricare il partner di ulteriore lavoro inutile, di venir meno al proprio ruolo.

    Biodom3
    ho scorporato in questo messaggio una parte del tuo post sull'analisi della teoria del patriarcato.
    può servire per dei riferimenti diretti.
     
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0 replies since 3/11/2020, 17:32   238 views
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