"Il politicamente corretto"

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    https://ragionipolitiche.wordpress.com/202...mente-corretto/

    <<il linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi, raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia. Ciò che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.
    Quel linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato, in libertà e con uguali diritti. Un linguaggio privo di passione e di violenza, capace di sterilizzare ogni differenza nella universale indifferenza. Uno vale uno, insomma.
    Ma questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione: il linguaggio politicamente corretto è pacifico e al tempo stesso aggressivo, vendicativo, intollerante: l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di unilaterale violenza. La sua logica normale è quella eccezionale del giudizio universale: nihil inultum remanebit. Tutti i torti vanno conosciuti, puniti e riparati. La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il quale si colloca il politicamente corretto.
    Che è politico: è un atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via. È un universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito. È l’espressione di una parte che si fa Tutto, che pretende di giudicare ergendo se stessa a Legge. È un dominio, un punto di vista elevato a potenza, che non ne ammette né legittima altri.
    Ma non sempre ne è consapevole. Il contenuto politico del politicamente corretto è quasi sempre mascherato, e declinato attraverso la morale: l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta al tempo e allo spazio. La neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende all’acronia. Si pagano colpe che non erano tali quando furono commesse; i discendenti rispondono oltre la settima generazione. La purga linguistico-politico-morale deve essere radicale.
    Il politicamente corretto ha molti tratti in comune con il razionalismo individualistico moderno: condivide con Hobbes l’impulso antistorico, la tesi che «all’antichità nulla sia dovuto», e col giacobinismo il parossismo livellatore che per colpire i sospetti si fa tagliatore di teste. Condivide l’intreccio fra morale e ragione, fra neutralizzazione spoliticizzante e supremo spasmo politico della sovranità, che monopolizza la ragione per sé e nega ogni ragione a chi è fuori dal suo perimetro – e viene quindi privato di ogni valore, di ogni dignità, gettato fra i reprobi – .
    E quindi non è antimoderno, come pure qualcuno ha detto: anzi, il Moderno vi esprime il proprio assolutismo, la propria efficace astrattezza. Un Moderno ignaro della dialettica, della storia, inconsapevole del fatto che le individualità non nascono già fatte e finite ma sono l’esito di lotte e di contraddizioni, che le soggettività, le società, le istituzioni, i simboli, i linguaggi, recano in sé come propria viva sostanza, come propria drammatica concretezza. Perse o cancellate le quali l’umana convivenza è un algoritmo che combina monadi irrelate senza passato e senza futuro. Nel politicamente corretto la severa ideologia liberal che ne fa la propria bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia del neoliberismo, della sua visione della società come un giustapporsi di attori individuali, che abitano un eterno presente.
    Ciò che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli. La lotta per l’immagine e il simbolo, o contro di essi, è vecchia come l’umanità: non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto il segno della politica, poiché ne fa parte. Si tratta ogni volta di decidere chi è meritevole di rappresentazione e chi no, perché è troppo superiore o troppo inferiore.
    Ma è lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle la patente morale che si autoassegna. Così, se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill perché razzista; il suo spirito di dominio imperiale, venato di superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della storia reale; mentre ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un nemico mortale, con cui non si poteva scendere a patti.
    E se nel Nord America si abbattono le statue di Colombo ciò significa che gli eredi dei colonizzatori anglosassoni delegittimano il dominio ispanico (veramente distruttivo)? Oppure in quelle statue abbattute è da leggersi una confessione della colpa originaria di tutti gli europei per avere scoperto l’America, espropriando i nativi (al Nord, al Centro, al Sud)? E dopo l’autoflagellazione dell’uomo bianco quale riparazione è prevista? La restituzione ai nativi del banale Monte Rushmore o della più impegnativa isola di Manhattan? Oppure l’abbattimento della statua salva la coscienza, lava la colpa, e mentre afferma un dominio linguistico liberal mantiene immodificato il dominio economico liberista? E in quest’ultima ipotesi il politicamente corretto non corre forse il rischio di ridursi a un intimidatorio gioco di potere linguistico fra élites, e di far perdere di vista questioni strutturali che la sua fiaccola illuministica lascia in un cono d’ombra?
    È quindi giusto elogiare il dialogo, la divergenza d’opinioni, la tolleranza reciproca: è il minimo che si possa chiedere in una società che si dice liberale. Ma non con l’obiettivo di neutralizzare il politicamente corretto in una più generale amorfa indifferenza; non si tratta di ri-legittimare ogni violenza e ogni discriminazione, né di utilizzare l’ingiustizia del passato per giustificare quelle del presente. Si tratta anzi di decifrare queste nella loro radicalità, e di impegnarsi – questo è il punto – a darne una lettura non moralistica ma storico-politica. Di riconoscere la complessità della politica non per farne un alibi all’ignavia, ma per vedervi l’occasione di un agire emancipativo meno scontato del politicamente corretto e delle sue ritualità>>.

    Edited by Deusfur - 29/9/2020, 20:27
     
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    Davvero interessante, sono d'accordo ovviamente. Il politicamente corretto è usato anche come una clava per zittire il dissenso su questioni che vengono fatte diventare dei veri e propri tabù. La cosa incredibile che pian piano si è esteso dalle singole parole a interi pensieri: basti pensare alla critica al femminismo, diventata argomento sacrilego, oppure alla (presunta), intoccabilità delle questioni gay, dove non è permesso dissentire (adozione, matrimonio ecc), altrimenti si viene bollati per retrogradi come minimo. Ci sono alcune idee che sono diventate "più idee" delle altre e impediscono la libera espressione di idee contrarie (attenzione, non di manganellate, ma di idee contrarie): e non è fascismo, forse, questo?
     
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    Il politicamente corretto è uno dei tanti metodi per inibire il pensiero critico sul sistema di pseudovalori ora imperanti.
     
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    Aggiungo questa riflessione di Andrea Zhok.

    "I NUOVI MURI

    L’editore Meulenhoff ha tolto il compito di tradurre la poetessa afroamericana Amanda Gorman alla scrittrice olandese Marieke Lucas Rijneveld dopo il pubblico bombardamento di critiche piovute sulla scelta della traduttrice.

    Secondo un diffuso, o quantomeno vocale, 'public sentiment' la Rijneveld sarebbe inadeguata al compito in quanto donna bianca.

    La casa editrice Meulenhoff si era difesa dicendo di aver scelto la Rijneveld in quanto affine nello stile e nei toni, e la poetessa olandese sembrava essere una scelta appropriata.
    L’editore aveva inoltre assicurato che un gruppo di lettori avrebbe testato la traduzione per valutare se contenesse un linguaggio offensivo, stereotipi o altre improprietà.

    Ma niente di questo è bastato, e di fronte alla montante protesta si è deciso di cambiare traduttrice.

    Perché menzionare questo episodio, che molti, non senza ragioni potrebbero trovare semplicemente ridicolo?

    Premetto, a titolo di opinione personale, che se la qualità letteraria della poetessa americana è quella mostrata nella sua declamazione al discorso di insediamento di Biden, credo che la letteratura mondiale possa serenamente privarsene senza soffrire danno alcuno.

    Ma questo punto non è importante.

    Il punto importante è che questo è solo uno, l'ennesimo, esempio della devastante forma mentis su cui stiamo costruendo il terzo millennio d.C.

    Con un sorrisone fosforescente stampato in faccia, nel nome della bontà, dei diritti, della libertà stiamo costruendo una delle società più fitte di muri, steccati interiori, barriere, odi e disprezzi trasversali, incomprensioni, incomunicabilità che la storia ricordi.

    Lo so che molti ancora sottovalutano questo punto.
    Molti ancora pensano che questioni come quelle del 'politicamente corretto' siano tutt'al più educati formalismi, da cui niente di cruciale dipende.

    Invece questo è un punto silente, ma esplosivo.

    I più grandi sforzi etici del passato erano rivolti alla costruzione di forme del "noi", di comunità o società immaginate come amalgama di individui accomunati da qualcosa di importante (l'amor di patria, la devozione religiosa, ecc.).

    Tutto ciò cui lavoriamo culturalmente oggi rema invece in direzione esattamente opposta, verso la creazione di frammentazioni progressive, dove si proclama la fondamentale impossibilità ad essere compresi dagli altri.

    Che siano steccati mentali fondati sull'appartenenza generazionale, sulla razza, sul genere, sulle inclinazioni sessuali, o altro, comunque il lavoro profondo del motore pedagogico della contemporaneità è dedicato alla decomposizione di ogni "noi" trasversale e comprensivo in "noi" sempre più sparuti, giù giù fino all'individuo isolato (e invero anche facendo breccia nella sua stessa identità personale).

    L'elogio della diversità non è più l'elogio dell'interesse o del fascino che la diversità può suscitare.
    Niente affatto.
    L'elogio odierno della diversità è l'elogio dell'irriducibilità dell'altro, e dunque della nostra fondamentale incomunicabilità.
    Che per ragioni oscure dovremmo venerare come un grande valore."
     
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    Edited by Deusfur - 17/5/2021, 23:41
     
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